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lunedì 19 novembre 2012

ECONOMIA: Dismissione patrimonio immobiliare dello Stato


Quando uno si vende la casa per pagare i debiti, vuol dire che è alla frutta. Se poi è costretto a farlo in un momento in cui il mercato immobiliare è nel baratro, significa che è andato anche oltre. Così lo Stato italiano sta pensando di tappare i buchi di bilancio ricorrendo a una massiccia vendita di immobili di proprietà in un periodo storico decisamente sbagliato. Ma, si sa, a mali estremi, estremi rimedi. E’ la lungimiranza di una classe politica vecchia e decotta, che si è garantita pensioni d’oro e vitalizi da primato mondiale, che per 20 anni non si è mai accorta che il debito pubblico italiano stava galoppando verso l’infinito e che avrebbe condannato figli e nipoti allo sfruttamento del lavoro precario nei call center o alla disoccupazione perpetua.

Dismissioni immobili pubblici: un favore agli amici degli amici?

Vendere immobili pubblici in questo momento, è impresa titanica a meno che non li si voglia svendere o regalare (il volabolo rientra meglio nel gergo italico) a qualche avventuroso immobiliarista che con i politici in passato ha già fatto soldi a palate. In Spagna, il primo ministro Rajoy ha dichiarato che i beni dello Stato al momento non sono in vendita, così come ha replicato Hollande da Parigi, per evitare di affossare ulteriormente il mercato immobiliare. Da noi, invece, si fa esattamente l’opposto, al punto che viene spontaneo domandarsi di quale Unione Europea facciamo parte. I giornalisti al soldo dei partiti, i cui stipendi sono foraggiati con i soldi dei contribuenti, hanno recentemente coronato di successo l’annuncio del Ministro dell’Economia Vittorio Grilli che in un’intervista rilasciata a Class CNBC ha dichiarato che “grazie al piano di dismissioni che verrà attivato nel 2013 riusciremo a diminuire la pressione fiscale”. Altro fumo denso negli occhi dei cittadini, spettatori inermi di fronte al collasso della politica italiana, e che ormai non credono più a una sola parola di quello che i sondaggi hanno definito il peggior governo della storia repubblicana.
Per forza. Quello che tutti questi professori e tecnici non hanno capito é che il problema dell’Italia non sono le entrate, ma le uscite! Lo ha ribadito con toni accesi anche il presidente della Bce Mario Draghi la scorsa settimana e il messaggio era indirizzato proprio al premier Monti, non ai colleghi europei. I soldi che verranno incassati dalla (s)vendita del patrimonio immobiliare serviranno infatti a pagare i maxivitalizi e le pensioni d’oro per i prossimi cinque anni di legislatura a un clan di politici che ha una visone della problematica completamente distaccata dalla realtà. Altro che riduzione delle tasse. Stiamo svendendo tutto per pagare privilegi che non ci siamo mai potuti permettere. E la pressione fiscale in Italia resterà alta, contrariamente a quanto dice Grilli, perché il progetto di vendita degli immobili pubblici è destinato a fallire e, in ogni caso, il debito pubblico non diminuirà. Vediamo perché.

Un progetto da 300 miliardi destinato a fallire ancora prima di cominciare

In base al decreto legge dello scorso mese di giugno Grilli-Scalera per la dismissione del patrimonio pubblico varato dal Ministro dell’Economia e Direttore dell’agenzia del Demanio, la partita immobiliare nel suo complesso può valere oltre 300 miliardi di euro. Fin qui i numeri sembrano interessanti, ma – a conti fatti – quanto realmente potrebbe entrare nelle casse dello Stato? Chi avrà il coraggio di comprare in questo momento? A suscitare dubbi sul buon esito dell’operazione è la Corte dei Conti che ha messo in guardia il governo già dallo scorso mese di giugno: “con i prezzi immobiliari in caduta libera, il rischio di svendere si fa corposo”. I magistrati contabili ricordano, infatti, che il precedente ministro all’Economia Giulio Tremonti con l’operazione di finanza creativa “Scip  1″ e  “Scip 2″ (vendita di migliaia di immobili previdenziali) è riuscito a realizzare solo 5 miliardi di euro dei 16 preventivati e, tra l’altro, in tempi meno difficili di quelli attuali. Con la triste conseguenza che, poi, gli stessi immobili destinati ad attività istituzionale sono stati presi in affitto dagli enti previdenziali che li avevano ceduti. Quindi, dov’è stato il guadagno? A fare affari, alla fine, sono state le banche, i consulenti e gli studi legali che con l’attività di “cartolarizzazione” si sono arricchiti divorandosi una bella fetta dei soldi e allo Stato è andato meno di 5 miliardi di euro, mentre il debito pubblico è continuato a salire. Un fallimento annunciato che ricorda il progetto del ponte sullo stretto di Messina o la Tav in Val di Susa e che partiti e politici vergognosamente ripercorrono con assidua costanza dagli anni ’90. Il precursore di questa disperata ricerca di denaro a ogni costo è stato l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, uomo da oltre 30mila euro al mese di pensione, colui che dalla sera alla mattina s’inventò il prelievo forzoso del sei per mille sui conti correnti degli italiani (dopo aver azzerato il suo e quello degli amici). Quel disgraziato esecutivo allora varò la famosa società “Immobiliare Italia”, che doveva fare quello che da vent’anni tutti hanno continuato a rifare: censimento degli immobili pubblici, valorizzazione e vendita. Un buco nell’acqua enorme che portò solo allo sperpero di denaro pubblico a vantaggio dei soliti affaristi e avvocati vicini ai partiti, visto che alla fine nessun immobile fu ceduto. E’ quindi più che prevedibile che anche il progetto del Ministro Grilli sia destinato a rimanere nel campo delle buone intenzioni e il debito pubblico non diminuirà.

Lo stato spende troppi soldi per i dipendenti della pubblica amministrazione
Quello che bisognerebbe veramente fare, è tagliare le spese inusitate e spropositate verso la politica e la sua clientela che si staglia amabilmente fra le pieghe della pubblica amministrazione con il beneplacito della sorniona classe sindacale. Lo Stato spende 175 miliardi all’anno solo per pagare gli stipendi dei suoi dipendenti. Troppo per uno paese indebitato fino al collo! Gli stipendi (e le pensioni) della classe dirigenziale pubblica andrebbero ridotti almeno del 25%  – come premono da Bruxelles da diversi anni – per riportare la spesa entro il 10% del Pil annuale. Per questioni di bilancio, ma anche di equità, parola invocata come il vangelo dal premier Mario Monti. Ma non si comprende cosa ci sia di equo nel sovvenzionare il parassitismo pubblico (non tutto, ma buona parte sì) con soldi privati. Perché un dipendente privato o un imprenditore, col lavoro o il capitale a rischio, deve garantire posti di lavoro pubblici che oscillano tra il totalmente inutile e l’altamente improduttivo? Per anni partiti e sindacati, per assicurasi il consenso, hanno gonfiato la pubblica amministrazione di posti inutili inventando ruoli o nuove funzioni e di contratti fatti da promozioni e avanzamenti di grado che non trovano riscontro con la (de)crescita economica del paese, al punto che le buste paga dei burocrati sono cresciute mediamente più che nel settore privato. A cominciare dal Ministero della Difesa, dove gli sprechi e la distribuzione di stipendi altisonanti fra i numerosi ufficiali e sottufficiali è degna solo di un paese sudamericano. Se la (s)vendita di immobili di pregio dello Stato serve a mantenere inalterata questa situazione, allora è meglio lasciarli dove sono. A questi livelli il debito pubblico italiano è difficilmente contenibile in ogni caso, e senza supporto esterno e con politiche scellerate come quella della (s)vendita del patrimonio immobiliare, faremo una fine becera e miserabile.

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