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venerdì 16 marzo 2018

Il licenziamento per ritorsione è nullo: obbligo di reintegra

Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta , costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore ( nel caso di ritorsione diretta) o di altra persona ad esso legata  (ritorsione indiretta).
Il licenziamento per ritorsione richiede  l’accertamento di due presupposti:
  1. il motivo di ritorsione (motivo illecito);
  2. la assenza di altre ragioni lecite determinanti (esclusività del motivo).
Se ne viene così accertata la natura ritorsiva,  tale licenziamento è  nullo ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418, comma 2, c.c., art. 1345 ed art. 1324 c.c..
Siffatto tipo di licenziamento, anche definito "per rappresaglia", infatti,  è stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità , data l'analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dall’art. 4 della l. 604/1966, dell’art. 15 della l. 300/1970 e dell’art. 3 della l. 108/1990 - interpretate in maniera estensiva.
Per questo ad esso si applicano le stesse  conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, fatte salve dalla riforma del Jobs act anche per il contratto a tutele crescenti istituito dal decreto legislativo 23-2015.

Onere della prova e tutela reintegratoria

L'onere della prova  che il licenziamento sia di natura ritorsiva  incombe sul lavoratore; devono infatti essere provati dal lavoratore gli elementi illeciti e la assenza di altri motivi, come già detto.
La cassazione riconosce però che la natura ritorsiva può essere desunta anche da semplici presunzioni (Cass. civ., sez. lav., 8 agosto 2011, n. 17087 "trattasi di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni" (...) "un ruolo non secondario" è dato dalla "dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole").
Inoltre un'altra sentenza ha  evidenziato che  quello del lavoratore è un onere di prova successivo:  in quanto anche il datore di lavoro deve  provare l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo alla base del recesso.

Il caso di licenziamento per ritorsione nella sentenza n. 4883 2018

Un lavoratore veniva accusato dall'azienda di avere simulato uno stato di malattia e ,a seguito del deteriorarsi del rapporto gli veniva richiesto di dare le dimissioni proponendo una transazione economica che veniva rifiutata. Di fronte a tale rifiuto,  il datore di lavoro lo licenziava per giusta causa.
Il giudice del lavoro a cui ricorreva il lavoratore dichiarava nullo il licenziamento per il carattere ritorsivo. La Corte d'appello confermava la pronuncia del giudice di prima istanza   in quanto risultava dimostrata, dalle  circostanze di fatto riferite dai testi  e dai dati documentali acquisiti agli atti, la effettività dello stato patologico in cui versava il lavoratore  ed il carattere ritorsivo del recesso.
La Cassazione cui si rivolgeva la società rigettava il ricorso,  argomentando che i rilievi formulati dal ricorrente, riferiti a vizi prospettati come violazione di legge, sono volti, essenzialmente, a sindacare un accertamento di fatto condotto dal giudice del merito.
Inoltre, nel  merito,  da un canto, lo stato morboso in cui versava il lavoratore non era simulato, sulla scorta di dati obiettivi e di logiche considerazioni che muovevano dall'intento manifesto del lavoratore, di continuare nello svolgimento della attività alle dipendenze della società, così escludendosi la ricorrenza della giusta causa di licenziamento; dall'altro, che il quadro probatorio delineato era univoco nel senso di collegare l'atto di recesso datoriale al rifiuto da parte del dipendente, di accettare una transazione delle questioni economiche inerenti al pregresso rapporto di lavoro, così configurandosi l'intento ritorsivo che lo ispirava.

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